Per l'esame di Metodologia del Dialogo Interreligioso della Facoltà Valdese di Teologia, ho dovuto leggere vari documenti delle chiese protestanti e riformate sul dialogo ebraico e cristiano. La lettura di tutti è stata piacevole, salvo di quello che allego qui:
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«Considerazioni sul sussidio ecclesiastico per il rinnovamento del rapporto di Cristiani ed Ebrei»
di 13 professori di teologia dell'università di Bonn
L'esigenza che ha spinto il Sinodo renano e, prima di esso, altri organi ecclesiastici e che contrassegna il sussidio, cioè la ricerca e la promozione dei dialogo con l'Ebraismo, coscienti della colpa storica nei confronti dell'Ebraismo, e il tentativo di definire a nuovo il rapporto di Cristiani ed Ebrei è da accogliere senza riserve. In particolare, bisogna assentire con forza alla valutazione positiva dell'Antico Testamento che fin dall'inizio unisce Cristiani ed Ebrei.
Nei dettagli, tuttavia, il sussidio dà motivo a grosse considerazioni teologiche.
1. Il sussidio non distingue tra Israele ed Ebrei, e precisamente fra l’Israele dell'Antico Testamento, l'Israele come è compreso nel Nuovo Testamento e definito da un lato Israele con durevole prerogativa salvifica (Rom 9,4), dall'altro Israele-secondo-la-carne (1 Cor 10,18); gli Ebrei come definizione neotestamentaria di coloro i quali non riconoscono il Cristo; gli Ebrei post-neotestamentari come Ebraismo del Talmud; come pure le altre, molto differenziate figure dell'Ebraismo medioevale e moderno.
2. Questa terminologia confusa e indifferenziata ha per conseguenza una confusione di contenuti: come portatori della promessa e come popolo eletto possono esser considerati allo stesso modo: l'Israele dell'Antico Testamento; l'Israele secondo-la-carne post Christum natum; Ebrei che respingono Cristo; Ebrei della Torah; Ebrei in senso giuridico e nel senso della legislazione ebraica secondo la Halakah (b Kid 68b), cioè persone di madre ebrea.
3. Il contenuto della «promessa» non viene espresso chiaramente in nessun posto, sebbene, secondo l'unanime testimonianza del Nuovo Testamento, in e attraverso Cristo si realizzi il compimento di ogni promessa e Cristo stesso sia questo compimento (Le 4,21; 2 Cor 1,20; 6,1).
4. Non si è considerato che gli specifici contenuti veterotestamentari della promessa e i beni salvifici come il possesso della terra, il divenire popolo o l'esistenza etnica hanno perduto significato - malgrado il permanere della dimensione terrena della salvezza donata in Cristo - per Gesù e per i testimoni di Cristo del Nuovo Testamento. È caratteristico della concezione del Regno propria di Gesù (e del Battista) il fatto che l'appartenenza alla nazione ebraica non fonda più alcuna pretesa alla partecipazione alla salvezza ventura. L'Ebreo in quanto tale non ha alcuna garanzia di salvezza. Dio può suscitare figli ad Abramo dalle pietre (Le 3,8). Per i Cristiani, dunque, i contenuti veterotestamentari della promessa - terra e divenire popolo - non possono più esser beni salvifici di fronte alla salvezza già donata in Cristo, la quale consiste nella libertà dalla legge, dal peccato e dalla morte (Fil 3,7). Come è certo che la Bibbia ebraica non può per questa ragione essere ritenuta globalmente vecchia nel senso di liquidata e superata, così però essa è Antico Testamento, perché essa può rivendicare una validità cristiana solo in quanto essa è confermata e presupposta dall'avvenimento centrale della testimonianza neotestamentaria a Cristo. La Chiesa cristiana non ha mai letto e utilizzato diversamente l'Antico Testamento. Esso conserva proprio come Antico Testamento il suo significato e il suo onore nella predicazione cristiana.
5. Il sussidio determina il rapporto Antico Testamento-Nuovo Testamento esclusivamente in senso «storico-salvifico» - nel senso della teologia della storia della salvezza del 19' secolo - secondo lo schema promessa adempimento, vecchio patto-nuovo patto e tenta di determinare il rapporto fra Cristianesimo ed Ebraismo a partire da questo presupposto storico-salvifico.
Questa impostazione, assunta acriticamente, non è affatto biblicamente documentabile, poiché per il Nuovo Testamento non è rilevante il prima dell'Antico Testamento in quanto tale, ma la preesistenza della «Scrittura» (1 Cor 10,11: 15,3 s; Le 4,21; Rom 4,23; e in particolare Gal 3,8.22) in cui la storia d'Israele è conservata come storia di Dio con Israele. La continuità storico fattuale tra Abramo e gli Ebrei è proprio teologicamente irrilevante secondo Rom. 4,13; Gal 3,7, cfr. Rom 9,7s.
Per Gesù è proprio caratteristico il fatto che egli sviluppi la sua concezione della salvezza - a averlo compreso, perché questo aspetto non è mai stato corretto con inserti secondari nella tradizione sinottica. Solo Paolo e la lettera agli Ebrei affiancano antico e nuovo patto, e, significativamente, in modo radicalmente antitetico (Gal 3,15.17; 4,24; 2 Cor 3,6.14; Ebr 8,7.13).
6. Affermazioni essenziali dell'apostolo Paolo, dunque proprio di quel testimone che, in quanto ebreo divenuto cristiano, sì è occupato più intensamente del problema affrontato dal sussidio, rimangono totalmente non considerate. La frase sulla radice che porta i cristiani, usata come un motto, viene estrapolata dal contesto dell'argomentazione e viene convertita in un Leitmotiv che ormai dice il contrario di quel che Paolo chiaramente pensa e che si può leggere già nel verso successivo: «Bene; sono stati troncati per la loro incredulità, e tu sussisti per la fede; non t’insuperbire, ma temi». Il mistero escatologico (Rom 11,25s), secondo cui «tutto Israele sarà salvato» non fonda alcuna via particolare alla salvezza (cfr. 11,23).
L'Ebraismo come esso si è sviluppato in epoca post-esilica e poi sotto l'influenza del Farisaismo e diversamente dall'Israele dell'Antico Testamento, ha il suo appoggio stabile nella Tora come l'intera rivelazione di Dio, che contrassegna l'Ebraismo in modo esclusivo; secondo la comprensione cristiana Cristo è la fine di questa Tora come via di salvezza. Ebraismo della Tora e fede in Cristo sono perciò due cose diverse e inconciliabili (Fil 3,4-9). È spiacevole, ma caratteristico per il sussidio, che solo un Ebreo esprima questa chiara conoscenza (pp. 33 e 39 del sussidio).
7. La confessione della colpa o della complicità alla persecuzione omicida contro gli Ebrei e l'indignazione per l'accaduto non dovrebbero offuscare lo sguardo, impedendo chiare conoscenze e distinzioni teologiche, come avviene nel sussidio. La confessione della colpa e della complicità non dovrebbe neppure fraintendere l'ideologia nazionalsocialista e i suoi crimini come se fossero cristiani o commessi o provocati dai Cristiani in quanto tali. L'ideologia nazionalsocialista era altrettanto apertamente non cristiana e anti-cristiana che antiebraica.
8. È assolutamente possibile ammirare e stimare gli Ebrei e affermare e sostenere attivamente lo stato d'Israele, senza dare a questa simpatia una motivazione «storico-salvifica» e senza dover sacrificare o anche solo relativizzare fondamentali verità cristiane che separano Ebraismo e Cristianesimo.
9. Gli Ebrei in quanto posteri dell'Israele dell’Antico Testamento, sono i discendenti del popolo eletto da Dio. Sono, come tutti gli uomini, «sotto il peccato» (Rom 3,9.23s). Per loro, come per tutti gli uomini, valgono le promesse che si sono adempiute in Cristo. Il loro più importante bene ereditario che essi, come i Cristiani, ereditarono da Israele, è la Bibbia ebraica, l'Antico Testamento cristiano. Questa eredità comune a Cristiani ed Ebrei unisce Ebraismo e Cristianesimo; la diversa interpretazione che se ne dà e il diverso uso che se ne fa - senza Cristo, a partire da Cristo - è quello che li divide.
Altrimenti tra Ebrei e non Ebrei non sussiste di fronte a Dio alcuna differenza (Gal. 5,6. 6,15 come pure Gal 3,27-29). Una posizione particolare di fronte a Dio basata sull'appartenenza o sull'origine etnica è estranea alla predicazione di Cristo.
10. Siccome l'Evangelo di Cristo vale per tutti gli uomini, la chiesa non può rinunciare a indirizzare il suo messaggio a tutti gli uomini (Mt 28,19s). La predicazione dell'Evangelo di Cristo rivolta ad Ebrei non può, evidentemente, apostrofarli come pagani e neppure pretendere che la conversione alla fede in Cristo debba avere per conseguenza lo staccarsi dalla comunione ebraica di popolo e di tradizione, come mostra Gal 2,1-10.
I Professori K.H. Faulenbach; J.F.G. Goeters, E. Gráßer, A.H.J. Gunneweg, H.J. Hermisson, M. Honecker, H. Karpp, G. Krause, 0. Plóger, H.J. Rothert, K. Scháferdiek, W. Schneemelcher, W. Schrage.
Da: Christen und Juden. Eine Schwerpunkt-Tagung der Landessynode der Evangelischen Landeskirche in Baden, 10-11. November 1980 in Bad-Herrenalb, pp. 182-183.
(fine)
Direi che il documento è riuscito a far arrabbiare un ebreo umanista come me, e temo che uno teista si arrabbierebbe ancora di più. Cominciamo con il rileggere questo paragrafo.
(inizio)
Altrimenti tra Ebrei e non Ebrei non sussiste di fronte a Dio alcuna differenza (Gal. 5,6. 6,15 come pure Gal 3,27-29). Una posizione particolare di fronte a Dio basata sull'appartenenza o sull'origine etnica è estranea alla predicazione di Cristo.
(fine)
La prima frase: "tra Ebrei e non Ebrei non sussiste di fronte a Dio alcuna differenza" mi piacerebbe anche, perché gli ebrei umanisti e quelli ricostruzionisti non credono all'Elezione d'Israele, e sembrerebbe che gli autori del documento vogliano un mondo in cui tutti i popoli abbiano gli stessi diritti e doveri.
Sottoscriverei anche, ma i paragrafi iniziali chiariscono che ben altro è l'intento degli autori:
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1. Il sussidio non distingue tra Israele ed Ebrei, e precisamente fra l’Israele dell'Antico Testamento, l'Israele come è compreso nel Nuovo Testamento e definito da un lato Israele con durevole prerogativa salvifica (Rom 9,4), dall'altro Israele-secondo-la-carne (1 Cor 10,18); gli Ebrei come definizione neotestamentaria di coloro i quali non riconoscono il Cristo; gli Ebrei post-neotestamentari come Ebraismo del Talmud; come pure le altre, molto differenziate figure dell'Ebraismo medioevale e moderno.
2. Questa terminologia confusa e indifferenziata ha per conseguenza una confusione di contenuti: come portatori della promessa e come popolo eletto possono esser considerati allo stesso modo: l'Israele dell'Antico Testamento; l'Israele secondo-la-carne post Christum natum; Ebrei che respingono Cristo; Ebrei della Torah; Ebrei in senso giuridico e nel senso della legislazione ebraica secondo la Halakah (b Kid 68b), cioè persone di madre ebrea.
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Che cosa fa di un gruppo di persone un popolo? L'accordo reciproco. Chi ha diritto di aggiungere o togliere persone da quel popolo? Chi di quel popolo fa parte.
Di quest'elementare nozione di diritto internazionale i tredici autori dell'articolo se ne sono ricordati? No, visto che, pur confessando tutti e tredici di non essere ebrei, pretendono di stabilire chi è ebreo e chi non lo è.
E la frase: "Gli Ebrei in quanto posteri dell'Israele dell’Antico Testamento, sono i discendenti del popolo eletto da Dio" è semplicemente iettatoria. Gli ebrei sono il popolo vivente che ha redatto la Bibbia, non i suoi eredi, e tutte le sottili distinzioni dei tredici autori, qualunque sia la loro giustificazione storica o teologica, sono tra persone in egual titolo ebree. Perché rimproverare il sussidio di aver evitato una discussione di lana caprina?
Se è vero che il profetismo, l'apocalittica ed il medio giudaismo (testimoni le citazioni neotestamentarie dei tredici professori, a cui posso aggiungere Romani 9:6 ed Apocalisse 2:9) si sono chiesti quali ebrei avrebbero meritato il mondo a venire, il giudaismo rabbinico ha risolto il problema affermando che "Tutto Israele ha una parte nel mondo futuro" (Mishnah, Sanhedrin 11:1) e "Israele ha peccato, ma è pur sempre Israele" (Talmud babilonese, Sanhedrin 44a).
Laicamente, questo significa che nessun ebreo è escluso dal popolo d'Israele (salvo casi estremi). Il sussidio che i tredici autori contestano rispetta l'autocomprensione ebraica, i tredici la violano.
Da un punto di vista non più laico, ma religioso, dovrei osservare che una tradizione ebraica ama paragonare le persone ai libri, e viceversa - Heinrich Heine, quando disse che: "Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini", non ha trovato l'ispirazione lontano da lui, visto che era un ebreo convertito al cristianesimo.
Quando un ebreo muore, lo si piange come se fosse andato perduto un "Sefer Torah = Rotolo della Torah", perché non esiste ebreo completamente alieno alla Torah ed ai Precetti - cosa che i tredici autori hanno dimenticato, quando hanno disquisito su chi è incluso nel Patto di Abramo.
Quando un ebreo muore, lo si piange come se fosse andato perduto un "Sefer Torah = Rotolo della Torah", perché non esiste ebreo completamente alieno alla Torah ed ai Precetti - cosa che i tredici autori hanno dimenticato, quando hanno disquisito su chi è incluso nel Patto di Abramo.
Mettersi a scegliere chi è ebreo e chi non lo è diventa a questo punto un problema simile a quello di scegliere quali opere debbono far parte del canone biblico. Il paragone è tantopiù appropriato in quanto Sam Berrin Shonkoff, nella prefazione ad un libro dell'esegeta ebreo Michael Fishbane, ha scritto:
In nessun posto colpisce la concretezza dell'ermeneutica ebraica in modo più evidente che nelle provocatorie indicazioni di Michael Fishbane secondo cui l'esegesi biblica non assume solo forma verbale - e perciò neppure la teologia (esegetica) ebraica. Già nella Bibbia, sostiene Fishbane, ci sono "due tipi diversi di tradizione esegetica: quella che riceve la sua dignità dalle sue origini verbali nelle Scritture, e quella che riceve tale dignità dalla comunità religiosa che vive secondo la Scrittura, i cui costumi quindi possono essere fedelmente ritenuti una forma di esegesi non verbale." Si riferisce a quest'ultimo tipo di esegesi alternativamente come "vita scritturale" ed "esegesi come azione". In breve, azione rituale e "zitathaftes leben nel suo pieno senso incarnato" [non conosco il tedesco, ma dalle mie ricerche in internet sembra che l'espressione significhi 'vita imprigionata nelle citazioni', ed è stata inventata da Thomas Mann] sono siti centrali dell'espressione teologica. Fishbane enfatizza questa dimensione corporea del pensiero ebraico negli ultimi capitoli di Exegetical Imagination, dove scivola dalla "teologia speculativa verso qualcosa come una teologia pratica ebraica".
Ovvero, ogni ebreo è chiamato ad interpretare la Torah non solo con la parola, ma anche con l'esempio (il Gesù che si lamenta in Matteo 23:2-3 che gli scribi ed i farisei parlano bene, ma agiscono male, si pone appunto su questa linea di pensiero), e regolare la composizione del popolo ebraico significa anche stabilire che esegesi le generazioni presenti e future daranno alla Torah.
I tredici che si mettono a sindacare chi è davvero un contraente del Patto di Abramo riaprono quindi, a loro modo, la disputa sul canone biblico - una disputa sempre interessante, ma da condurre con misura.
Si cita spesso la posizione di Lutero, per il quale il "canone del canone" biblico è Gesù - questo documento riporta tali parole di Lutero: "Tutti i libri genuinamente sacri concordano in questo, che tutti quanti predicano ed inculcano Cristo. E questo è il vero saggio con cui giudicare tutti i libri - se inculcano o meno Cristo".
Non sono cristiano, e quindi, pur osservando che gli ebrei riformati hanno un approccio verso la Scrittura mutuato in parte da quello cristiano protestante, mi limito a rispettare l'opinione di Lutero senza condividerla.
Direi però che più importante dei dubbi di Lutero sul libro di Ester (che non gli hanno impedito di includerlo tra i libri canonici) è il fatto che né Lutero né i suoi discepoli hanno mai espunto un libro dal canone prototestamentario stabilito ad Yavneh (e nel Secondo Testamento, anche la Prima Lettera di Giacomo e l'Apocalisse sono rimasti ad onta dello sprezzante giudizio di Lutero) - per deferenza verso l'"hebraica veritas", intesa sia come elenco dei libri accolti come sacri dagli ebrei, sia come testo in lingua ebraica dei medesimi.
Ed il documento prima citato avverte che il "canone del canone" secondo Lutero non autorizza a stabilire quali libri biblici escludere, ma semmai quali prediligere, visto che tutti vanno comunque presi sul serio.
Fin qui, la cosa è ragionevole: anche un rabbino dà più importanza alle opinioni di rav Aqiva che a quelle di Srulik (personaggio dei fumetti che rappresenta l'israeliano maschio medio degli anni '60-'70-'80); ma le disquisizioni dei tredici erranti riaprono la disputa sul canone in un modo che non si è mai visto dai tempi, se non di Marcione, di von Harnak.
Non è necessario partire dal paragone ebraico "persona = libro" per arrivare a questa conclusione. Se Dio ha stipulato un patto con gli ebrei, questo patto è tra un soggetto unico (anche se non necessariamente unitario) ed un soggetto collettivo; e come si stabilisce chi fa parte di quel soggetto collettivo?
Dio interviene qualche volta per togliere (con la pena del "karet = estirpazione"), ma non gli viene chiesto con un oracolo se e chi aggiungere - è chi è già ebreo che lo fa, e Dio ratifica, non solo perché del suo popolo ha fiducia, ma perché, da buon monarca costituzionale che ha "ottriato" la Torah, anche lui è vincolato dalle decisioni di un tribunale.
I tredici erranti negano al popolo ebraico questo elementare diritto; e mi spiace far notare che Jean Paul Sartre aveva osservato nel 1945, trentacinque anni prima che uscisse il loro articolo:
Se si vuole sapere che cos'è l'Ebreo contemporaneo, bisogna interrogare la coscienza cristiana: bisogna chiederle non "che cosa è un Ebreo", ma "che cosa hai fatto degli Ebrei?". L'Ebreo è un uomo che gli altri uomini considerano Ebreo. Ecco la verità semplice da cui bisogna partire. In questo senso il democratico ha ragione contro l'antisemita: è l'antisemita che "fa" l'Ebreo.
È come se i tredici erranti avessero fatto atterrare il loro aereo in un aeroporto in fiamme - non possono dire di non aver visto in che guaio andavano a cacciarsi.
Raffaele Yona Ladu, ebreo.