Nella newsletter del Coordinamento Teologhe Italiane sono stati oggi pubblicati questi interessantissimi link sull'opera della teologa evangelica Megan K. DeFranza:
[2] Intersex and Imago: Sex, Gender, and Sexuality in Postmodern Theological Anthropology
la quale ricorre alle persone intersessuali per superare il binarismo dei sessi/generi della teologia cristiana, che viene comunemente basato su una lettura pedestre (per non dire maldestra) di Genesi 1:27.
la quale ricorre alle persone intersessuali per superare il binarismo dei sessi/generi della teologia cristiana, che viene comunemente basato su una lettura pedestre (per non dire maldestra) di Genesi 1:27.
Se [1] è una breve presentazione, con una videointervista di 18 minuti ed oltre all'autrice, [2] sembra la dissertazione dottorale da cui è nato il libro Sex Difference in Christian Theology : Male, Female and Intersex in the Image of God, e che mi permetto ora di recensire.
La dissertazione nasce con una lunga trattazione medica delle varie forme di intersessualità, alle quali l'autrice trova un riferimento teologico cristiano negli "eunuchi", già presenti nella Bibbia ebraica (il passo più significativo sembra Isaia 56:3), e citati da Gesù in Matteo 19:12.
Questo dà all'autrice il destro per esplorare il sistema dei sessi e dei generi dal mondo antico (greco, romano, ebraico, per cominciare; mi permetto però di osservare che anche il Talmud parla degli intersessuali, ma l'autrice lo ignora - qui è all'opera il vecchio pregiudizio per cui, dopo la chiusura del canone biblico, gli ebrei non hanno più detto niente di interessante) fino all'età contemporanea, osservando che il binarismo moderno è un portato dell'età vittoriana (non è una sorpresa per chi ha letto Foucault), e che prima (Laqueur docet) vigeva semmai un modello unitario, in cui la donna era un uomo invertito e meno perfezionato, e l'eunuco/intersessuato stava in mezzo.
L'attuale insistenza cristiana sulla "complementarietà dei sessi" viene fatta risalire a Karl Barth, il quale reagì alla crisi dell'ontologia del suo tempo (a me viene in mente Heidegger) ponendo un soggetto non più sostanziale, ma relazionale - per la precisione, facendo del rapporto uomo-donna l'immagine delle relazioni tra le tre persone della Trinità.
Karl Barth ha avuto allievi in tutto il mondo cristiano; in campo cattolico il più influente per l'argomento della dissertazione è stato Giovanni Paolo 2°, mentre alla difficoltà di ridurre ad unità l'elaborazione teologica di centinaia di chiese riformate senza un centro dottrinale unitario l'autrice ha rimediato scegliendo come teologo paradigmatico Stanley Grenz.
L'autrice è un'eteronormativa il cui ideale relazionale è la monogamia eterosessuale, eppure trova nei due teologi motivi sia di lode che di critica.
Di Giovanni Paolo 2° ella critica il suo rigido binarismo dei sessi/generi, ed il fatto che gli "eunuchi" evangelici vengano da lui riduttivamente intesi come le persone che non possono o non vogliono generare - che esistano dei corpi irriducibili al binarismo maschio/femmina al defunto pontefice non era venuto in mente.
Di Stanley Grenz ella critica il primato dell'eterosessualità, anzi, il ritenerla alla base di tutte le relazioni umane, compresa quella con Dio o con i confratelli cristiani - eppure il defunto teologo citava John Money, il che fa pensare che egli conoscesse l'esistenza degli intersessuali.
Quello che baluginava nei maestri diventa eclatante nei discepoli: la differenza sessuale (formulata talvolta in termini che volutamente ignorano l'elementare differenza tra sesso e genere, cosa che, io penso, Luce Irigaray non si sarebbe mai sognata di fare) viene esagerata quantitativamente, e viene qualitativamente intesa come di portata ontologica.
In questo binarismo elevato ad ontologia non c'è posto per le persone intersessuali - vanno normalizzate, a cura del medico o del chirurgo.
L'autrice evidenzia anche i rischi teologici di quest'ontologia; per esempio, nessun teologo nega che Gesù fosse un uomo; ma se i due sessi sono irriducibilmente diversi, l'incarnazione di Gesù rischia di valere per gli uomini e non valere per le donne - i primi sarebbero salvati, le seconde no, e per gli intersessuali occorrerebbe decidere caso per caso.
Inoltre, i teologi sottovalutano le differenze anche fisiologiche all'interno dei due sessi del loro modello - cosa invece ben chiara ai medici (per non parlare di antropologi, psicologi e sociologi); il rischio è che il binarismo dei sessi degeneri nell'imposizione di un modello unico di mascolinità e femminilità - l'incubo dei missionari almeno dai tempi di Matteo Ricci, osservo io!
E l'autrice fa notare che il "modello unico" femminile è più elaborato di quello maschile, perché alle donne si prescrive quello che devono fare ("prendersi cura") molto più spesso che agli uomini! Osservo che il privilegio dell'identità dominante (il non aver bisogno della coscienza di sé) diventa qui una punizione per contrappasso dantesco.
L'autrice cerca di uscire dalle aporie della differenza sessuale elevata ad ontologia partendo proprio dall'intersessualità, in quanto dimostra che maschi e femmine sono fatti della medesima materia (stuff).
Mostra anche, a suo avviso, che non serve avere più di due sessi - occorre però evitare di fare della loro differenza un'ontologia, in modo da consentire una certa variabilità di caratteristiche, e tener presente (l'osservazione ed il paragone sono della neurologa Melissa Hines) che anche le differenze di attività cerebrale tra i sessi sono molto sfumate, molto di più che nel campo della statura.
È facile notare che gli uomini in media sono più alti delle donne, ma nessuno direbbe che una persona è maschio o femmina solo conoscendone la statura; in modo molto più sfumato, si possono individuare pattern di attivazione cerebrale maschili e femminili, ma una TEP non ci rivela se è stata scattata ad un uomo o ad una donna.
Risolvere queste aporie passa per il reinterpretare i racconti della Creazione. Lei non tenta di interpretare in modo metaforico Genesi 1:27 (come invece fanno gli ebrei), ma come l'inizio di una lunga storia.
Se la prima coppia umana aveva il dovere della fecondità, e l'unica differenza tra Adamo ed Eva era quella necessaria a generare, proprio il loro successo ha creato una società in cui le differenze sono proliferate, alcune diventando più divisive di quella sessuale (si pensi alla razza od all'etnia) - e la fecondità diventa meno importante, tanto che alcuni teologi (non cattolici) si chiedono se "Siate fecondi e moltiplicatevi" sia tuttora un ordine preciso per gli sposi cristiani, od una benedizione per loro.
Il fatto che né Adamo né Eva fossero intersessuali non vieta che dopo di loro queste persone possano apparire, e se Gesù nel Vangelo le loda, ciò significa che non è il caso di rettificarle a forza.
Il mondo che verrà non sarà un mondo senza differenze, ma un mondo in cui esse non faranno danno - è l'opinione anche di alcuni teologi della disabilità, i quali osservano che, come Gesù risorse con le mani ed il petto piagati, così i disabili risorgeranno con la loro disabilità. Ma non nuocerà più loro!
L'eunuco biblico, che con qualche cautela si può paragonare all'intersessuale di oggi, diventa per l'autrice il paradigma dell'inclusione - e nel mondo che verrà non sarà più sterile.
L'ultimo capitolo della dissertazione denuncia il pericolo che nasce quando l'amore sessuale (inteso come congiunzione carnale con il proprio coniuge in vaso proprio) diventa il prototipo di ogni forma di amore.
Come ebreo non avrei niente in contrario, ed osservo che il paragone si trova nella mistica di molte religioni (il Cantico dei Cantici è solo l'esempio più noto), ma l'autrice teme che, a proporlo a tutte le persone, ponga sulle spalle di molte di loro un fardello imbarazzante.
Il celibato viene svalutato, e chi non vive una relazione coniugale deve aggiungere ai disagi della solitudine anche il senso di fallimento spirituale.
Inoltre c'è il pericolo che l'amore tra le persone della Trinità venga frainteso come "eros" e non come "agape" (Benedetto 16° sembra aver aperto una deriva pericolosa su questo fronte) - faccio però notare che è una preoccupazione puramente cristiana: come osservava Elémire Zolla, trattare con le sefirot significa praticare gli incesti incessanti che le animano. Ma questo è ebraismo postbiblico, che l'autrice programmaticamente ignora.
Ma, mentre gli ebrei che credono nella Qabbalah sono sempre pronti a ricordare che quello che accade tra le Sefirot (vedi ad esempio qui) non necessariamente è consentito all'uomo, l'autrice della dissertazione raduna quello che nelle sue intenzioni dovrebbe essere un "museo degli orrori teologici", in cui incesto tra adulti consenzienti, poliamore, omosessualità, sesso casuale, ecc. vengono giustificati dall'esempio che ne darebbero le persone trinitarie.
Se qualcuno vuole un esempio di prima mano, si legga "Il dio queer / Marcella Althaus-Reid", che ho qui recensito, non molto favorevolmente.
Per quanto io capisca le preoccupazioni dell'autrice, ritengo però questa la parte più debole della dissertazione; il brano più interessante mi pare quando propone di spodestare Adamo ed Eva: sono la prima coppia umana, ma non devono essere paradigmatici.
Un paradigma più interessante sarebbe di una terna: Adamo, Eva e ... l'Eunuco - che corrisponderebbe allo Spirito Santo che nella Trinità "procede dal Padre e dal Figlio". Alla Trinità divina corrisponderebbe quindi una Trinità sociale, con meno rischio di una coppia di degenerare in un binarismo ontologico.
L'ultimo capitolo infine cerca di applicare tutto questo alla cristologia - stanchezza da una parte, inesperienza dall'altra, mi consigliano però di lasciare il capitolo a persone più valide di me.
Raffaele Yona Ladu
La dissertazione nasce con una lunga trattazione medica delle varie forme di intersessualità, alle quali l'autrice trova un riferimento teologico cristiano negli "eunuchi", già presenti nella Bibbia ebraica (il passo più significativo sembra Isaia 56:3), e citati da Gesù in Matteo 19:12.
Questo dà all'autrice il destro per esplorare il sistema dei sessi e dei generi dal mondo antico (greco, romano, ebraico, per cominciare; mi permetto però di osservare che anche il Talmud parla degli intersessuali, ma l'autrice lo ignora - qui è all'opera il vecchio pregiudizio per cui, dopo la chiusura del canone biblico, gli ebrei non hanno più detto niente di interessante) fino all'età contemporanea, osservando che il binarismo moderno è un portato dell'età vittoriana (non è una sorpresa per chi ha letto Foucault), e che prima (Laqueur docet) vigeva semmai un modello unitario, in cui la donna era un uomo invertito e meno perfezionato, e l'eunuco/intersessuato stava in mezzo.
L'attuale insistenza cristiana sulla "complementarietà dei sessi" viene fatta risalire a Karl Barth, il quale reagì alla crisi dell'ontologia del suo tempo (a me viene in mente Heidegger) ponendo un soggetto non più sostanziale, ma relazionale - per la precisione, facendo del rapporto uomo-donna l'immagine delle relazioni tra le tre persone della Trinità.
Karl Barth ha avuto allievi in tutto il mondo cristiano; in campo cattolico il più influente per l'argomento della dissertazione è stato Giovanni Paolo 2°, mentre alla difficoltà di ridurre ad unità l'elaborazione teologica di centinaia di chiese riformate senza un centro dottrinale unitario l'autrice ha rimediato scegliendo come teologo paradigmatico Stanley Grenz.
L'autrice è un'eteronormativa il cui ideale relazionale è la monogamia eterosessuale, eppure trova nei due teologi motivi sia di lode che di critica.
Di Giovanni Paolo 2° ella critica il suo rigido binarismo dei sessi/generi, ed il fatto che gli "eunuchi" evangelici vengano da lui riduttivamente intesi come le persone che non possono o non vogliono generare - che esistano dei corpi irriducibili al binarismo maschio/femmina al defunto pontefice non era venuto in mente.
Di Stanley Grenz ella critica il primato dell'eterosessualità, anzi, il ritenerla alla base di tutte le relazioni umane, compresa quella con Dio o con i confratelli cristiani - eppure il defunto teologo citava John Money, il che fa pensare che egli conoscesse l'esistenza degli intersessuali.
Quello che baluginava nei maestri diventa eclatante nei discepoli: la differenza sessuale (formulata talvolta in termini che volutamente ignorano l'elementare differenza tra sesso e genere, cosa che, io penso, Luce Irigaray non si sarebbe mai sognata di fare) viene esagerata quantitativamente, e viene qualitativamente intesa come di portata ontologica.
In questo binarismo elevato ad ontologia non c'è posto per le persone intersessuali - vanno normalizzate, a cura del medico o del chirurgo.
L'autrice evidenzia anche i rischi teologici di quest'ontologia; per esempio, nessun teologo nega che Gesù fosse un uomo; ma se i due sessi sono irriducibilmente diversi, l'incarnazione di Gesù rischia di valere per gli uomini e non valere per le donne - i primi sarebbero salvati, le seconde no, e per gli intersessuali occorrerebbe decidere caso per caso.
Inoltre, i teologi sottovalutano le differenze anche fisiologiche all'interno dei due sessi del loro modello - cosa invece ben chiara ai medici (per non parlare di antropologi, psicologi e sociologi); il rischio è che il binarismo dei sessi degeneri nell'imposizione di un modello unico di mascolinità e femminilità - l'incubo dei missionari almeno dai tempi di Matteo Ricci, osservo io!
E l'autrice fa notare che il "modello unico" femminile è più elaborato di quello maschile, perché alle donne si prescrive quello che devono fare ("prendersi cura") molto più spesso che agli uomini! Osservo che il privilegio dell'identità dominante (il non aver bisogno della coscienza di sé) diventa qui una punizione per contrappasso dantesco.
L'autrice cerca di uscire dalle aporie della differenza sessuale elevata ad ontologia partendo proprio dall'intersessualità, in quanto dimostra che maschi e femmine sono fatti della medesima materia (stuff).
Mostra anche, a suo avviso, che non serve avere più di due sessi - occorre però evitare di fare della loro differenza un'ontologia, in modo da consentire una certa variabilità di caratteristiche, e tener presente (l'osservazione ed il paragone sono della neurologa Melissa Hines) che anche le differenze di attività cerebrale tra i sessi sono molto sfumate, molto di più che nel campo della statura.
È facile notare che gli uomini in media sono più alti delle donne, ma nessuno direbbe che una persona è maschio o femmina solo conoscendone la statura; in modo molto più sfumato, si possono individuare pattern di attivazione cerebrale maschili e femminili, ma una TEP non ci rivela se è stata scattata ad un uomo o ad una donna.
Risolvere queste aporie passa per il reinterpretare i racconti della Creazione. Lei non tenta di interpretare in modo metaforico Genesi 1:27 (come invece fanno gli ebrei), ma come l'inizio di una lunga storia.
Se la prima coppia umana aveva il dovere della fecondità, e l'unica differenza tra Adamo ed Eva era quella necessaria a generare, proprio il loro successo ha creato una società in cui le differenze sono proliferate, alcune diventando più divisive di quella sessuale (si pensi alla razza od all'etnia) - e la fecondità diventa meno importante, tanto che alcuni teologi (non cattolici) si chiedono se "Siate fecondi e moltiplicatevi" sia tuttora un ordine preciso per gli sposi cristiani, od una benedizione per loro.
Il fatto che né Adamo né Eva fossero intersessuali non vieta che dopo di loro queste persone possano apparire, e se Gesù nel Vangelo le loda, ciò significa che non è il caso di rettificarle a forza.
Il mondo che verrà non sarà un mondo senza differenze, ma un mondo in cui esse non faranno danno - è l'opinione anche di alcuni teologi della disabilità, i quali osservano che, come Gesù risorse con le mani ed il petto piagati, così i disabili risorgeranno con la loro disabilità. Ma non nuocerà più loro!
L'eunuco biblico, che con qualche cautela si può paragonare all'intersessuale di oggi, diventa per l'autrice il paradigma dell'inclusione - e nel mondo che verrà non sarà più sterile.
L'ultimo capitolo della dissertazione denuncia il pericolo che nasce quando l'amore sessuale (inteso come congiunzione carnale con il proprio coniuge in vaso proprio) diventa il prototipo di ogni forma di amore.
Come ebreo non avrei niente in contrario, ed osservo che il paragone si trova nella mistica di molte religioni (il Cantico dei Cantici è solo l'esempio più noto), ma l'autrice teme che, a proporlo a tutte le persone, ponga sulle spalle di molte di loro un fardello imbarazzante.
Il celibato viene svalutato, e chi non vive una relazione coniugale deve aggiungere ai disagi della solitudine anche il senso di fallimento spirituale.
Inoltre c'è il pericolo che l'amore tra le persone della Trinità venga frainteso come "eros" e non come "agape" (Benedetto 16° sembra aver aperto una deriva pericolosa su questo fronte) - faccio però notare che è una preoccupazione puramente cristiana: come osservava Elémire Zolla, trattare con le sefirot significa praticare gli incesti incessanti che le animano. Ma questo è ebraismo postbiblico, che l'autrice programmaticamente ignora.
Ma, mentre gli ebrei che credono nella Qabbalah sono sempre pronti a ricordare che quello che accade tra le Sefirot (vedi ad esempio qui) non necessariamente è consentito all'uomo, l'autrice della dissertazione raduna quello che nelle sue intenzioni dovrebbe essere un "museo degli orrori teologici", in cui incesto tra adulti consenzienti, poliamore, omosessualità, sesso casuale, ecc. vengono giustificati dall'esempio che ne darebbero le persone trinitarie.
Se qualcuno vuole un esempio di prima mano, si legga "Il dio queer / Marcella Althaus-Reid", che ho qui recensito, non molto favorevolmente.
Per quanto io capisca le preoccupazioni dell'autrice, ritengo però questa la parte più debole della dissertazione; il brano più interessante mi pare quando propone di spodestare Adamo ed Eva: sono la prima coppia umana, ma non devono essere paradigmatici.
Un paradigma più interessante sarebbe di una terna: Adamo, Eva e ... l'Eunuco - che corrisponderebbe allo Spirito Santo che nella Trinità "procede dal Padre e dal Figlio". Alla Trinità divina corrisponderebbe quindi una Trinità sociale, con meno rischio di una coppia di degenerare in un binarismo ontologico.
L'ultimo capitolo infine cerca di applicare tutto questo alla cristologia - stanchezza da una parte, inesperienza dall'altra, mi consigliano però di lasciare il capitolo a persone più valide di me.
Raffaele Yona Ladu
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